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Questa settimana e la prossima ho scelto di condividere un articolo molto interessante, scritto dal collega Maurizio Zacchi, direttore della Cyber Academy di CyberGuru: quando alcuni principi (a me molto cari) vengono illustrati così bene… perché reinventare la ruota?!
Buona lettura 😉
Esiste una relazione tra benessere e cybersecurity? Possiamo supporre che una situazione di malessere psicologico possa aumentare la vulnerabilità di un individuo rispetto agli attacchi Cyber??

Dal mio particolare punto di vista di formatore in ambito Cyber Security Awareness, la risposta a entrambe le domande è affermativa. Prendendola alla lontana, potrei limitarmi a dire che uno stato di malessere rende un individuo più esposto ad una serie di rischi su cui la distrazione gioca un ruolo decisivo. Un individuo che vive uno stato di alterazione emotiva sarà meno lucido nell’affrontare situazioni che richiederebbero invece un elevato grado di concentrazione.
Cerco di avvicinarmi di più al cuore di questo articolo, focalizzando la mia attenzione su una particolare categoria di benessere, il cosiddetto benessere digitale, e sui rischi relativi agli attacchi Cyber che fanno leva sul fattore umano.

“stress digitale”
Ormai possiamo considerare assodato che esistono condizioni di stress che riguardano specificamente la sfera digitale e che sono connesse con l’uso pervasivo delle tecnologie e dei dispositivi digitali. Lo stress in generale è una reazione che si manifesta quando una persona percepisce uno squilibrio tra le sollecitazioni ricevute e le risorse a disposizione, quindi, quando il carico di richieste eccede le risorse disponibili per fronteggiarle.
Le tecnologie digitali possono essere fattore di stress per molte ragioni, in qualche caso anche per un banale gap di competenze, vista la rapida evoluzione di tutto l’ecosistema digitale che viene spesso subita dagli utenti. Accade frequentemente in ambito aziendale, quando il dipendente si trova costretto ad usare ambienti applicativi senza un’adeguata formazione, traducendo questo in una difficoltà oggettiva a svolgere determinate mansioni.

“sovraccarico comunicativo”
Rispetto all’obiettivo di questo articolo mi vorrei concentrare su una particolare forma di stress, quella legata al sovraccarico comunicativo a cui la maggior parte delle persone sono ormai soggette. Riceviamo sollecitazioni in continuazione che assumono la forma di messaggi e notifiche che ci raggiungono attraverso dispositivi che sono diventati ormai parte di noi. Il riferimento principale è ovviamente allo smartphone, ma ultimamente dobbiamo considerare anche i dispositivi indossabili, come gli smartwatch, che rimangono “incollati” a noi anche durante la notte. In un’ambientazione aziendale dobbiamo inoltre considerare l’uso del computer, che comunque non riduce l’invadenza dello smartphone…
Il meccanismo si complica ancora di più quando si realizza una forma di ibridazione, che rende più fluidi anche i confini tra la sfera personale e quella lavorativa. Per molte persone la lettura dello smartphone è la prima operazione effettuata appena svegliate e anche l’ultima prima di andare a dormire. Adattiamo quindi la definizione di stress, concentrandoci sullo “stress comunicativo”, inteso come la difficoltà a gestire adeguatamente il flusso di comunicazioni che ci arriva attraverso i canali digitali.

immagine realizzata con #midjourney

Pensiamo ad esempio alle applicazioni di messaggistica istantanea, Whatsapp su tutte, che consentono di stabilire comunicazioni uno-a-uno, molti-a-molti (gruppi) oppure uno-a-molti (funzioni di broadcasting). Questi sistemi, oltre a governare le comunicazioni dirette, vengono ormai utilizzati per favorire le comunicazioni in ogni tipologia di network sociale: lavoro, scuola, amici, appassionati di qualcosa, sport […]. Qualsiasi attività sociale tende a mapparsi su una o più chat di gruppo.
Tutto questo genera un circuito infinito di discussioni che si traduce in una “valanga” di notifiche che travolge spesso le nostre capacità comunicative. L’effetto viene esasperato da un meccanismo di riprova sociale che ci spinge verso la risposta immediata. La mancata risposta viene infatti percepita spesso come un segnale di disinteresse. Si vengono quindi a creare modelli comportamentali orientati verso la risposta immediata, con le tecnologie che tendono ad enfatizzare tali modelli, basti ad esempio pensare all’importanza assunta dalla famigerata doppia spunta blu di Whatsapp.
Chiedetevi per un attimo quante volte avete partecipato o ascoltato conversazioni del tipo: “ma lo ha letto il messaggio?”, “Sì lo ha letto, ed è strano che non abbia risposto”.

“effetto social”
Per completare il quadro dovremmo aprire il vaso di Pandora dei social, con tutto ciò che riguarda la ricerca del consenso ogni volta che si pubblica un post o che si inserisce un commento. A questa forma di gratificazione fa da contraltare la paura della disapprovazione, che in alcuni casi assume addirittura la forma dell’insulto.
Si parla sempre più frequentemente di FOMO (acronimo per l’espressione inglese Fear Of Missing Out, letteralmente “paura di essere tagliati fuori”) che indica una forma di ansia sociale caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente in contatto con le attività che fanno le altre persone, e dalla paura di essere esclusi da eventi, esperienze, o contesti sociali gratificanti.

immagine realizzata con #midjourney

Tutto questo ci porta, da una parte a dare particolare importanza alle notifiche e agli alert che riceviamo soprattutto su smartphone e dispositivi indossabili, dall’altra ad accedere con una certa frequenza ai social, e quindi ai dispositivi digitali per verificare cosa sta succedendo ai nostri post o ai nostri commenti.

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